Ondarock (IT)
Se ci fosse richiesto di rappresentare con forme grafiche essenziali la nostra percezione dei diversi generi musicali, tenderemmo forse a tradurre la musica ambient in una struttura composta da linee rette, parallele o secanti a seconda del livello di sovrapposizione degli strati sonori che la compongono. Ciò almeno per quanto riguarda i padri fondatori di tale estetica, laddove la contemporaneità ha declinato anch’essa, come tutte, nelle forme più spurie e sperimentali che si possano immaginare.
Oggi l’ambient non va soltanto a creare o riempire uno spazio – sia esso fisico o immaginario – ma vuole esserne anche il contenuto, la materia stessa. Negli ultimi anni le delicate sperimentazioni di Taylor Deupree si sono mescolate a quelle di altri illustri comprimari (in particolar modo, il maestro Ryuichi Sakamoto), quasi volessero evitare il centro dell’attenzione per dialogare liberamente con altre analoghe, quiete manipolazioni sonore. Pubblicato cinque anni fa per la sua 12k, “Faint” era sino ad ora il suo ultimo album solista, ma il tempo trascorso ha fatto sì che affiorasse la semplice e luminosa idea su cui poggiano tutti i brani di “Somi”, di cui il libretto cartonato è parte integrante in quanto raccoglie le fotografie astratte che ne hanno ispirato la controparte musicale.
Riducendo la strumentazione all’essenziale – un piano elettrico, un synth DX7 e un glockenspiel – Deupree abbraccia il suono acustico e lo distilla in tante piccole perle incise su un registratore per cassette portatile. Queste tracce parallele vanno poi a concatenarsi con loop attivati manualmente, così da creare spontanee intersezioni che appaiono subito come il risultato di un cauto procedimento aleatorio.
Come un microcosmico “Atlas Eclipticalis” cageano, ciascun quadro va componendosi a partire da germogli benevoli di indeterminacy: una natura le cui particelle si alimentano da sé, e lo sfiorire dell’una ne produce almeno altre due, in una maniera simile a quella di molecole che reagiscono tra loro e vanno a ripopolare un terreno fertile ancora grezzo, idealmente rappresentato dal lievissimo fruscìo dei nastri che scorrono tra le bobine.
Come su una piastrina di laboratorio, su scala ridottissima, i più recenti moduli generativi di Brian Eno abbozzano un’inedita comunione con le melanconiche polaroid di Benoît Pioulard. Se anche si trattasse di un esito artistico fortuito e isolato, una cosa è certa: nel variegato panorama della musica ambient molti autori stanno ritrovando il gusto dell’imperfezione, della suggestione fragile ed evanescente, assai lontano dalle visioni eteree (o persino neutrali) dei decenni scorsi.