Ondarock (IT)
Quella tra Marcus Fischer e Taylor Deupree è una delle relazioni artistiche e personali sulla quale si è imperniata l’esistenza recente di 12k. Succeduto in ordine temporale a Savvas Ysatis, Richard Chartier e Christopher Willits nel novero dei collaboratori stabili del fu Human Mesh Dance, Fischer ha riversato la sua influenza in maniera particolare sull’estetica del catalogo dell’etichetta statunitense. Un contributo tangibile sia dal punto di vista sonoro (il suo “Monocoastal” rimane uno dei momenti-chiave del passaggio di main focus delle pubblicazioni 12k dal microsound all’organicismo elettroacustico), sia e soprattutto da quello visivo, con la maggior parte degli artwork co-firmata proprio con l’amico e label boss.
La passione per la fotografia, condivisa dai due al pari di quella per il suono, era stata alla base di quel capolavoro intitolato “In A Place Of Such Graceful Shapes”, autentico trattato di estetica e design dell’ambiente sonoro, come intuibile dal titolo. A quattro anni di distanza, “Twine” riparte dalle medesime premesse ribaltando però il rapporto di priorità: è il suono, e in particolare quello di una raccolta di nastri, a costituire il soggetto centrale, da esplorare, scoprire e preservare. Un approccio decisamente più vicino alle esplorazioni post-acusmatiche e romantico-decadenti di Stephan Mathieu che all’impressionismo organico evoluto minuziosamente da Deupree nei lavori recenti e alle costruzioni archetipiche della precedente collaborazione.
E si tratta forse per certi versi davvero di una sorta di comeback a una ricerca sul suono puro (e in quanto tale, imperfetto), slegato da qualsiasi contesto ambientale, pittoresco o estetico, ma in grado di costituire contesto concreto di per sé. Fra arpeggi dilatati e una livida melodia sintetica, lo schizzo di “Draw” fornisce i primi elementi per “entrare” in un lavoro scarno, intimo, in cui il suono è letteralmente denudato di ogni possibile sovrastruttura. Simili accenni melodici sono sparsi equamente in quasi ogni brano: nella diapositiva sbiadita di “Buoy” sono affidati a un pianoforte, nella ninnananna di “Telegraph” si schiudono fra i rintocchi a carillon di un vibrafono, nelle gemelle “Wake” e “Bell” affiorano fra arpeggi in stile Seaworthy e dilatazioni per oscillatori.
Sullo sfondo residui di un tempo indefinito, affidati ai loop dei nastri che si muovono su coordinate circostanziali, irripetibili e sempre diverse. Stralci strappati alle rispettive origini e riproposti nella loro identità più propria, addirittura in primo piano nei due passaggi più sfocati: la semi-immersione analogica di “Kern” e l’inquieta e nebbiosa “Sailmaker”. Forse gli approdi più radicali di una fenomenologia dei nastri magnetici in grado di “lasciar essere” il suono nella sua dimensione di sussistenza autonoma, portandone così alla luce una poetica nascosta, in genere privata della sua purezza dalla “contaminazione ambientale”. Eppure incredibilmente “diretta”, immediata, sintetica, per certi versi di facile fruizione, potenzialmente divulgativa. Qualità che solo l’esperienza di due fuoriclasse può aver donato a un’opera, comunque, autenticamente sperimentale.