Ondarock (IT)
Siamo di nuovo a parlare di 12k, costretti manco a dirlo a lodarne l’operato per l’ennesima volta, non fossero bastate una schiera di uscite che sconfina abbondantemente i limiti dell’anno in corso e quello che è forse uno dei dischi più belli del panorama ambientale elettroacustico degli ultimi anni. Stavolta tocca ai Pjusk, riguardo ai quali da queste parti sono già state tracciate sufficienti presentazioni, non ultima in occasione del gioiellino condiviso con Sleep Orchestra per il catalogo dell’altrettanto valente e lodevole Dronarivm. I Pjusk che sono fra le grandi scoperte dell’etichetta di Taylor Deupree, che li aveva lanciati dal nulla nell’ormai non troppo vicino 2007 seguendo passo passo la loro evoluzione dal mondo della sound art digitale ai suoni organici – evoluzione che ha in realtà riguardato praticamente tutti i più visionari fra i reduci del glitch.
Con “Solstøv”, dunque, Rune Sagevik e Jostein Dahl Gjelsvik tornano a casa dopo l’esperienza fra le nevi russe e la firma, ancor precedente, apposta sul catalogo ibernato della Glacial Movements di Alessandro Tedeschi. Lo fanno con il disco della definitiva maturità, della presa di coscienza di essere una delle realtà più valide ed importanti del panorama ambientale contemporaneo. Il tutto passa attraverso una riconsiderazione dei suoni che avevano celebrato il precedente “Tele” e la conferma del freddo nordico come elemento predominante nell’ispirazione, oltre all’apertura del proprio mondo ai contributi di alcuni ospiti di livello. Il risultato sono dieci tessere dai più volti, ciascuna parte imprescindibile di un puzzle, costituito da una base di elettronica sempre meno invadente su cui gli strumenti acustici vengono lasciati liberi di ricamare.
Che la collaborazione con Christopher Pegg abbia lasciato il segno nell’approccio dei due è dato innegabile, tanto quanto la voglia di voler mantenere una continuità tra quel lavoro e questo “Solstøv”. Per trovare una dimostrazione di ciò è sufficiente un ascolto alla malinconica e bellissima apertura di “Streif”, unico episodio autenticamente drone, che porta la griffe ospite della stessa (fittizia) Sleep Orchestra. Più suggestiva ancora è però “Gløtt”, ambientata idealmente all’interno di una grotta fra i rintocchi alle stalattiti, i sospiri magnetici di SaffronKeira e la tromba isolata del connazionale Kåre Nymark Jr. L’oscurità è una delle protagoniste principali lungo l’intera scaletta, e torna ad imporsi senza via di fuga nei lamenti subacquei di “Sløret”, nel magma vulcanico della chitarra di “Blaff” e nel concerto per field recordings di “Demring”.
Aleggia ben visibile l’ombra di Biosphere in queste gallerie scavate nelle nevi, per quanto i Pjusk trattino i suoi dub come materia da evolvere anziché da riproporre nella sua struttura originaria: emblematica in tal senso è “Glød”, sulla cui pulsazione accennata e notturna si impongono progressivamente una fioca luce armonica e il libero sfogo della tromba. Al gelo di “Diffus” spetta invece il compito di collegare il presente al passato post-glitch, e di formare con il torpore limpido della successiva “Falmet” (Loscil docet) uno dei contrasti più suggestivi dell’intero lavoro. E se su “Troslk” le lamine di ghiaccio si fanno affilate e taglienti, il mantra a sei mani di “Skimt” condiviso con Yui Onodera conclude mettendo in evidenza una volta di più il lento ma costante battito cardiaco, simbolo della vita propria di questa piccola meraviglia. Da conservare con estrema cura.