Ondarock (IT)
Innamoratosi a sorpresa dei suoni organici anni dopo aver scritto pagine di storia dell’estetica microsound, Taylor Deupree prosegue senza l’ombra di un passo falso il suo percorso di cristallizzazione del sound 12k. Dopo aver decantato in più occasioni la sua sorprendente conversione, della quale il capolavoro “Faint” resta il manifesto più completo, negli ultimi ventiquattro mesi si è dedicato a un sound sui cui binari si stanno progressivamente collocando parecchi altri brand di rara qualità (Spekk e Hibernate, solo per citarne un paio). L’ambient elettroacustico del 2014 è senza dubbio quello dettato da casa Deupree, un mix che pesca a mani basse dalla tradizione del process-generated e la contamina con i suoni bucolici delle field recordings, sancendo così l’approdo in Terra di un’estetica fino a prima rimasta a suffragio quasi univoco dell’astrazione.
Della coppia meticcia formata da Tomoyoshi Date e Corey Fuller si era già parlato un anno fa, in occasione di un raro gioiello, senza forse mettere però i giusti accenti. Più di una parola è infatti giusto spendere sulla natura di un progetto che unisce con una naturalezza disarmante correnti sonore provenienti da due paesi come Germania e Giappone (per quanto Fuller risieda ormai in pianta stabile in quel di Tokyo), rappresentando forse meglio di chiunque altro lo stato di salute e la capillarità che il 12k-sound ha oggi nel panorama dell’elettronica sperimentale. I suoni cristallini e le melodie quasi pastorali sporcate da concretismi in Giappone fanno breccia da tempo, e nel suono targato Illuha vanno a conciliarsi da un lato con sussurri neoclassici (Nils Frahm da quelle parti ha parecchi estimatori), dall’altra con quelle odissee di quiete dronica che Celer ha portato nel Sol Levante direttamente dagli States.
“Akari” è il disco della consacrazione di Illuha come progetto di punta del mondo ambient contemporaneo, nonché senza dubbio un’importante e considerevole cartina di tornasole su quella che sembra essere la direttrice più in forma a livello creativo del genere stesso. Eleganza e grazia sono di nuovo i termini-cardine dei cinque lunghi brani che compongono il disco, per quanto stavolta a stupire maggiormente sia la straordinaria capacità dialogica fra strumenti acustici ed elettronica, con i primi a prendere sorprendentemente (e per la prima volta in un disco targato Illuha) il sopravvento. I venti minuti scarsi di “Diagrams Of The Physical Interpretation Of Resonance” proiettano così in un humus che s’impregna di sentimento sotto la guida del pianoforte, a inaugurare un potenziale superamento della pura contemplazione tramite un accenno di tensione romantica.
Le declamazioni scientifiche annunciate dai titoli tendono a portare decisamente fuori strada rispetto all’ambiente sonoro affrontato all’interno dei brani: unica eccezione in tal senso è la fredda disamina geometrica di “Vertical Staves Of Line Drawings And Pointillism”, di gran lunga il passaggio meno ispirato del lavoro. L’alba di “The Relationship Of Gravity To The Persistence Of Sound” veleggia nel mezzo di un oceano privo di onde, crescendo fino a raggiungere un epos di synth in grado di trasmettere brividi vivi, al pari delle graffianti esplosioni noise della chiusura di “Relative Hyperbolas Of Amplified And Decaying Waveform” ai confini con le lande più desertiche del post-rock. Nel mezzo, il gioiello “Structures Based On The Plasticity Of Sphere Surface Tension” torna a concentrarsi sulla delicatezza, regalando un ennesimo tocco di classe e purezza al primo candidato ufficiale alla palma di disco dell’anno in campo ambient.