Review of Perpetual [12k1082]

Ondarock (IT)

Se è vero come è vero che l’abito non fa il monaco, le premesse con cui questo “Perpetual” arriva alle orecchie degli appassionati di musica atmosferica sono già sufficienti a renderlo uno degli eventi dell’anno. Due veterani imprescindibili – l’uno purosangue dell’elettronica sperimentale, l’altro meticcio pellegrino alla perenne ricerca dell’inedito – che incontrano due fuoriclasse della generazione contamporanea: qualcosa che suona suggestivo al solo sentir pronunciare i loro nomi. Vi si aggiunga la solita cura che contraddistingue puntualmente tutte le uscite 12k e si otterranno i presupposti per un disco potenzialmente già nell’olimpo prima ancora di essere stato ascoltato, su cui tutti riponevano aspettative forse sbagliate più che eccessive.

“Perpetual” è, molto semplicemente, un magistrale saggio di sound art ambientale. Di quelli che vanno assaporati a fondo, che difficilmente si rivelano al primo ascolto. Non è un lavoro seminale e innovativo, come per taluni era lecito aspettarsi dall’unione di simili forze creative. Più una conferma, indubbiamente non necessaria, della classe sopraffina e dello status di punte di diamante dei suoi quattro firmatari. Una raccolta di tre movimenti in cui è racchiuso il meglio dell’estetica (micro)sonora di un Deupree oggi conquistato del tutto dai suoni organici, pronta a fondersi con maestria alla purezza inimitabile dei soundscape firmati Fuller-Date e al tocco organico e cinematografico di Sakamoto. Il tutto filtrato attraverso una sensibilità percettiva semplicemente impareggiabile.

Tre suite da venti minuti scarsi ciascuno compongono un lavoro dedito all’autocontemplazione per scelta autentica. Perso di vista ogni soggetto già a partire dal titolo, i quattro ricamano astraendo sensazioni e percezioni personali e traducendo la process-generation in un fenomeno squisitamente umano. Il passaggio diviene palese nel terzo movimento, dove il pianoforte di Sakamoto, delicato e limpido, fa da pennello sul fondale screziato costruito dagli Illuha e sui flussi aurei firmati dal Deupree versione “Faint”, mantenendo l’acquarello ma andando a caccia dell’impressione. Il tutto senza rinunciare a una componente terrena, in forma di field recordings naturali, che abbandona lo scopo paesaggista per divenire mero elemento sonoro.

Ad accogliere in questo universo parallelo, dove la forma tende a contare forse più della sostanza (e per una volta questo non è un male), è un drone solitario e senza tempo, un soffio vitale che lentamente genera una gamma di colori primari in forma di singole armonie. Queste ultime si mischiano poi fino a confondersi in una miriade di sfumature, cui gli arpeggi della chitarra di Corey Fuller forniscono ciclicamente un accento ulteriore. Il primo movimento si lega in circolo al secondo, nel complesso il meno riuscito dei tre, dove protagonista è la rarefazione dei microsound di Deupree, in quello che risulta comunque un affascinante ritorno al passato.

Pochi oggi, in un mondo che continua a riempirsi di ottime e talentuose nuove leve, sarebbero in grado di realizzare un lavoro pregno di fascino come questo, in cui l’indiscutibile perfezione formale non fa rima con mancanza di sostanza sonora. Nulla di rivoluzionario o scioccante (e per certi versi questo è più che un bene). “Solo” due maestri che dialogano con i loro allievi più talentuosi, tracciando una linea che abbraccia l’arte del suono atmosferica in tutte le sue sfumature perpetue.

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